Morte dignitosa impossibile per molti?

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Sollecitato da molti di voi e da un recente articolo su La Stampa (cliccate l’immagine per leggerlo) esprimo il mio parere sulla questione.

Premetto che pur essendo benissimo a conoscenza della situazione mi é difficile scrivere “con sterilità” e soprattutto senza voler innescare polemica alcuna. Ma le mie parole nascono dall’esperienza quotidiana, fatta di percorsi di sofferenza, spesso estrema, ai quali anche noi che ci occupiamo di Cure Palliative talvolta non abbiamo risposte da offrire se non (ed é fondamentale) la vicinanza al malato e alla famiglia. Il non sentirsi soli in un percorso di malattia e di fine vita fa parte della terapia stessa e spesso diventa predominante su tutto il resto:”eravamo lì nel momento giusto”. Ecco perché parto dal presupposto che coloro che non si occupano direttamente di fine vita e di Cure Palliative trovano a mio avviso due ostacoli: il primo banalmente tecnico, ovvero la gestione della terminalità, capire e far comprendere ai familiari cosa é meglio per il malato nel suo ultimo percorso; il secondo ostacolo, quello forse più complesso é il rapporto che si ha con la morte. Gli ospedali hanno le loro eccellenze, in Regione Lombardia ne abbiamo validissimi esempi. All’interno di quelle mura però oltre all’eccellenza, forse, ci vorrebbe un po’ più di “cuore” e di “ascolto”. I ritmi troppo frenetici, i turni massacranti, la gestione non spesso adeguata delle situazioni porta il personale stesso ad operare in condizioni spesso difficili che non permettono un approccio completo pur nell’eccellenza tecnico-scientifica. Concludo questa breve introduzione sottolineando che non voglio fare di tutta un’erba un fascio ma le esperienze che raccolgo (l’ultima, allucinante, di ieri) mi fanno dire che sicuramente l’ospedale non é il luogo più adatto ove morire o, meglio, dove essere accompagnati verso la fine della vita. É chiaro che parlo di pazienti oggettivamente terminali e non di gestione di acuzie che evolvono verso la morte.
La gestione del fine vita deve essere affrontata da professionisti che si occupano di terminalità. Così come, ad esempio, l’oncologo si occupa del percorso di cura e di follow up della malattia, affiancato da un equipe preparata e aggiornata alle varie metodologie di intervento, il palliatore deve occuparsi dei sintomi, della prevenzioni degli stessi, dell’accompagnamento sia del malato che della famiglia in un percorso fatto insieme a professionisti che sanno riconoscere e gestire le variabili innumerevoli che un paziente terminale offre non solo in termini di dolore; l’intervento dovrà essere a 360 gradi prendendo per mano famiglia e ammalato cercando di costruire un percorso insieme, condiviso e di presenza costante. Ancora troppo spesso si confondono le Cure Palliative con la sola terapia del dolore. Quest’ultimo é il sintomo che meno ci spaventa poiché é il più trattabile. Gestire invece la complessità, in casa, di paure, ansie, e riuscire a costruire un percorso comune e allineato con la famiglia diventa terapeutico e fondamentale per poter accompagnare al meglio tutti i protagonisti del viaggio che si sta compiendo insieme. Ogni casa, ogni famiglia, ogni individuo pur con malattie che si ripetono, hanno esigenze, fragilità o punti di forza differenti. Dobbiamo saperli riconoscere e lavorare su quelli. Non pensiamo alle Cure Palliative come alla semplice “terapia per non sentire dolore” oppure a “quelli che usano la morfina”. Pensiamo alle Cure Palliative come un percorso attivo di presa in carico dell’individuo e di tutti coloro che sono quotidianamente a contatto con lui. Presa in carico che dovrebbe ( sono persino stanco di dirlo) essere il più precoce possibile, anche in assenza di sintomi. Se questo cammino insieme si inizia precocemente le salite che si incontreranno saranno sempre difficili, ma più facili da accogliere. Troppo spesso sento medici che dicono “ma no non ha dolore non c’é bisogno”. Non c’é niente di più sbagliato che vedere davanti a noi l’organo o il sintomo. Davanti a noi c’é una persona e una famiglia sicuramente spaventata, impaurita, disorientata,…. Non ci sarà dolore fisico ma spesso alla semplice domanda “dorme di notte?” la risposta é “si ma spesso mi sveglio, mi sento in ansia”. A me già basta questo poiché l’intervento, pur minimo, sarà quello di migliorare la qualità delle notti.
Ci sarebbe tanto da dire ma ora arrivo al nocciolo della questione ponendomi delle domande:
In ospedale si muore male? Si.
In ospedale si potrebbe morire meglio? Si.
Alla base di tutto credo ci sia una forte carenza culturale e conoscitiva di cosa offre il territorio (parlo perlomeno del mio). I medici ospedalieri,gli infermieri spesso non sanno nemmeno cosa siano e come sono organizzate le Cure Palliative Domiciliari. E la mentalità ospedaliera nella gestione del fine vita é completamente diversa da quella di chi di fine vita si occupa. Spesso chi assiste alla morte di un familiare ricoverato (parlo sempre di condizioni note di terminalità) vede nel fare tanto il meglio per il paziente. Dalle flebo, alla nutrizione parenterale, addirittura al sondino naso gastrico o al catetere vescicale, per non parlare degli esami ematici ogni giorno piuttosto che di esami anche invasivi sino all’ultimo giorno. “Hanno fatto di tutto, bravi”. Certo e comprendo questa visione da parte del familiare che vede nell’ospedale la soluzione ottimale di protezione. Ma forse ci sfugge qualcosa: cosa é meglio per il malato alla fine della vita? quanto sta soffrendo? che prezzo sta pagando il suo corpo e il suo animo? E soprattutto dove ci porta tutto questo fare?
Poi arriva il momento della morte o delle ultime ore. E con esse la difficoltà respiratoria che viene trattata spesso nella maniera sbagliata non pensando mai cosa arrivi dall’altra parte. A quanta sofferenza si “regala” ad un morente con interventi, nella gestione della terminalità, assolutamente inadeguati. Ed ecco che il rimando cambia: “é stato lucido sino alla fine, aveva gli occhi sbarrati, mi stringeva forte le mani e cercava in qualsiasi modo di respirare ma non riusciva, continuava a muoversi nel letto alla ricerca di un po’ di pace….” Potrei andare avanti ancora, ma giusto ieri la moglie di un mio paziente che purtroppo é stato ospedalizzato mi ha detto ” é morto piangendo “. Credo che queste tre parole sintetizzino un po’ tutto.
Resto fermamente convinto che il luogo di morte deve essere la propria casa, ben accompagnati da un servizio di cure palliative domiciliari che DEVE essere conosciuto dagli ospedali. Le cose sono un po’ cambiate in questi ultimi anni, tanti percorsi si fanno insieme soprattutto con le unità di oncologia, ma c’é ancora un “deserto” informativo e di sensibilità nei confronti della sofferenza dell’individuo che mi spaventa. Auspicherei per i prossimi mesi che l’Asl oltre giustamente ad occuparsi della gestione tecnico-burocratica e di vigilanza inizi veramente a costruire una Rete utilizzando magari chi é sul campo da anni, entrando negli ospedali, nelle unità operative “più resistenti” e informando medici, infermieri, operatori su cosa offre il territorio e cosa sono le cure palliative. Spiegare loro cosa significhi gestire la terminalità, capire e smuovere un po’ le acque parlando di morte e soprattutto di quanto sia importante una buona morte.
Tornando all’esperienza raccolta ieri da un figlio che ha perso la madre in ospedale (ricoverata purtroppo per una frattura ma già in fase avanzata di malattia oncologica) lo stesso non é riuscito a portarla a casa poiché spaventato e terrorizzato dagli stessi medici con frasi come ” non é possibile gestire a casa una persona così ” ; “lei si assume una responsabilità più grande della sua e sua madre potrebbe morire in tempi brevi ” ; questo povero ragazzo ha spiegato che era seguito da noi ma i sensi di colpa innescati da parole che pesano come macigni non hanno dato a lui la forza di portare a casa mamma nonostante lei stessa lo chiedesse. É morta ieri, malissimo, con un dolore terribile che portava la stessa ad urlare: all’urlo seguiva l’antidolorifico, mezz’ora di calma, e poi ancora urla. Ecco perché é compito nostro e delle Asl far conoscere cosa il territorio offre. Certo é che se ci fosse stata un po’ più di sensibilità bastava, che un medico di reparto ci contattasse (il figlio ci ha provato) e ci segnalasse il caso. Ne avremmo accolto i dubbi, li avremmo chiariti e questa mamma sarebbe morta a casa, senza urla. Un suono che questo figlio non dimenticherà mai.

Lavoriamo insieme, noi ci siamo, le cure palliative domiciliari esistono!

Grazie.

Cristian

Un uomo senza tempo

Un uomo senza tempo

“Non esiste un altro uomocosì caro come lui…”

18.12.1937 – 10.05.2014

Questo spazio, piccolo, senza troppe pretese, é nato per parlare di cure palliative, attraverso la mia esperienza quotidiana e gli spunti che tanti di voi regalano a questo blog. Permettetemi però di raccontare questa esperienza, come quelle che racconto nei vari “diario di bordo”. Questa non é solo una storia vera, come quelle del mio libro, questa é la mia storia.

Papà si è spento serenamente la notte del 10 maggio. Sottolineo serenamente perché se mi chiedessero come vorrei morire risponderei esattamente come mio padre. Con il sorriso. Con la serenità e la consapevolezza, la maturità, la semplicità di un uomo vero e saggio. Quella saggezza che nessun diploma o laurea ti può regalare. Quella saggezza che le prove della vita disegnano sul tuo corpo, nella tua mente e nei tuoi atteggiamenti.
La consapevolezza di andarsene papà l’ha acquisita subito, non solo perché, come spesso succede, l’ha sentito ma soprattutto perché io ho parlato con lui, semplicemente, senza troppi giri di parole ma con estrema delicatezza. Era poco prima di Natale dello scorso anno. La serenità con la quale lui ha permesso a me di fargli quel discorso é stata la stessa che mi ha accompagnato sino alla notte del 10 maggio. É grazie a lui che abbiamo riso e scherzato sino a due giorni prima, nonostante il suo corpo lo avesse abbandonato da qualche giorno, mai un segno di tristezza sul suo volto, di paura, di angoscia…mai. Non é comune. Tanti mi hanno detto “beh, c’eri tu sempre con lui, sarei stato sereno pure io”; non é proprio così. La morte non guarda in faccia a nessuno e fa paura. Ecco perché dico che lui é stato davvero grande e che mi sto rendendo conto solo ora quanto era speciale, come padre lo sapevo già, come uomo. Protettivo nei confronti di tutti. Non ha voluto che venisse detto nulla a nessuno, per proteggere se stesso e, soprattutto noi, io e mamma, da telefonate, domande, incontri…sapeva bene che volevamo stare tranquilli, e così é stato.
Nei due mesi prima di lasciare il corpo ha sistemato tutte le sue cose: i suoi attrezzi in garage, l’orto, le sue amate biciclette, ha fatto lavoretti a casa sua e a casa mia…ha cercato (e ci é riuscito) di sistemare ciò che voleva lasciare in ordine (consapevole del fatto che io e mamma a malapena cambiamo una lampadina!)
Fatto tutto questo é crollato, o meglio, si é arreso alla malattia, vincendo però a pieni voti sui sintomi, poiché non c’é stato alcun sintomo. Certo ci sono stati i farmaci (pochissimi) ma c’é stata soprattutto profonda serenità interiore. Ricordo a fatica quei giorni poiché mi scatenano ancora tante, troppe emozioni. Ero lì con lui, sempre. Figlio e infermiere. Infermiere e figlio. Non é stato facile scindere i ruoli durante alcuni interventi e mantenere quella professionalità che ti permette di operare al meglio, soprattutto quando papà é entrato in sedazione. L’ho addormentato io, come ho fatto centinaia di volte, sapendo che era la cosa migliore per lui, per far si che se ne andasse nel miglior modo. Ma ho addormentato papà. Chi ha letto il mio libro capisce bene che di fronte ad un sintomo inaccettabile in fase terminale e refrattario ad ogni altra terapia (agitazione difficoltà respiratoria,…) la strada migliore per garantire una buona qualità di vita anche alla fine della stessa é proprio la sedazione palliativa. L’abolizione più o meno graduale dello stato di coscienza permette alla persona di passare, quando sarà il suo momento, dal sonno alla morte, senza sofferenza alcuna. Con papà non ho avuto esitazione alcuna, ma le emozioni di quel momento non le dimenticherò mai. E mi sono rivisto nei familiari dei miei pazienti.
Colleghi e amici mi hanno esortato più volte dicendomi che dovevo fare solo il figlio e delegare tutto il resto. Avevano sicuramente ragione, ma tutti quei giorni con lui, accanto a lui, nel letto con lui sino al suo ultimo respiro sono un dono così prezioso, così grande, così intimo che lo rifarei mille volte. E non avrei alcun dubbio a dire di nuovo “no grazie, ci sono io e voglio esserci io”.
Grazie papà per avermi dato la possibilità di conoscerti nel profondo, ho scoperto una parte di te che ignoravo completamente: la tua saggezza. É stato un grande insegnamento, l’ultimo dei tanti che mi hai dato e, come ho scritto nei ringraziamenti del mio libro, é proprio grazie a te che mi reputo una brava persona.

Tuo figlio.
Cristian

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I “suoni amici”: mio commento dal blog di Marina Sozzi

 Clicca sull’immagine per andare al post “Che ruolo ha la musica alla fine della vita?” dal blog di Marina Sozzi “Si può dire morte”

si puo dire morte

Devo ringraziare sempre di cuore il lavoro di Marina Sozzi grazie (ma non solo) al suo interessantissimo blog “Si può dire morte”. Lo stimolo è, questa volta, il ruolo della musica alla fine della vita. Ho letto il suo post proprio mentre uscivo da una casa piena di “suoni amici” e qui sotto riporto il mio commento, scritto di getto all’uscita di quella casa.
Ed è nato così il “suono amico” che voglio condividere con voi.

Cara Marina,
Il mio sarà un commento semplice, apparentemente banale, ma basato sul mio vissuto quotidiano in cure palliative domiciliari. Il ruolo della musica é fondamentale in ogni momento della vita, dalla nascita, passando dalle ninna nanne della mamma fino al primo amore adolescenziale. Chi più chi meno associa la musica ad un evento, ad una emozione o semplicemente ad un ricordo. La musica é suono. Le nostre parole sono suoni. I rumori della nostra casa sono suoni abituali. Allargherei il concetto di musica come espressione di quel “suono amico” che può accompagnarci sino alla fine della vita e che spesso non é soltanto strumenti e voce ma può essere quel ruscello vicino alla finestra di casa, oppure il treno delle 7 che sveglia le nostre abitudini e, nel caso di fine vita, ci sveglia ancora una volta. Ecco perché é fondamentale lasciare il nostro corpo attorniato da tutti i nostri “suoni amici”. La musica come la nostra casa sensoriale, sia essa fatta di parole, di canti o anche di silenzi. Quindi senza enfasi alcuna per me la musica deve assolutamente far parte di un percorso di accompagnamento alla morte, ma pensando ad essa come ad ogni “gesto che produce un suono amico e conosciuto”, senza limitare il concetto al nostro gruppo o genere musicale preferito. Non é solo così.
Un abbraccio

Cristian Riva

La morte ti fa bella

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La morte ti fa bella…

Ok, penserete subito al titolo di un famoso film degli anni ’90 interpretato dai due premi Oscar Meryl Streep e Goldie Hawn. Peraltro per chi non l’avesse mai visto mi permetto di consigliarlo per una serata spensierata (ma non troppo).
In realtà il mio concetto é un altro e non vorrei eccedere nel macabro. Spesso, purtroppo, si arriva alla fine della vita oltre che anoressici, cachettici (stato di estrema magrezza legata alla malattia) e incapaci di svolgere le normali funzioni della vita quotidiana anche con lesioni di ogni tipo: da decubito, secondarismi metastatici ulcerati o con abbondante ritenzione idrica quale l’ascite (liquido in cavità addominale).
E allora perché la morte ti fa bella? Anzi, starete pensando…

Uno degli indicatori più veritieri dell’imminente avvicinarsi della fine, (in termini di poche ore) oltre alle condizioni generali che potrebbero persino non far pensare una fine così vicina, sta proprio nell’osservazione di queste anomalie del corpo che siano di tipo lesivo visibile oppure interne: tutto, qualche ora prima si sistema. Se c’é una lesione da decubito migliora inspiegabilmente in tutta velocità, a volte sino alla guarigione, oppure, ad esempio, un addome teso, gonfio, pieno di liquido nell’arco di una notte ritorna normale. Per non entrare troppo nei dettagli potrei citare tantissimi esempi visti con i miei occhi. Ecco perché la morte ti fa bella; io la vedo, pontificando un po’, come una sorta di preparazione, di auto sistemazione del corpo. In questa fase é presente la gioia dei parenti e del paziente stesso nel vedere un miglioramento così repentino che però viene sempre smentito nell’arco di poche ore.
Ovvio che c’é una spiegazione scientifica a tutto questo, ma spesso questi fenomeni sono così eclatanti che riescono a lasciarmi ancora a bocca aperta.

In ogni caso nolleggiate il film, che per me é, nel suo essere grottesco, una delle migliori commedie nere che io abbia mai visto con un messaggio di fondo non certo da sottovalutare e, soprattutto, molto moderno (il film é del 1992).

A presto
Cristian