IPASVI e dolore…

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Ringrazio personalmente la Presidente del Collegio IPASVI di Bergamo, Beatrice Mazzoleni, per l’invito come relatore a questa importante giornata formativa.

Mi scuso con i colleghi presenti e con i relatori se non mi sono potuto fermare sino alla fine per impegni lavorativi.

Per tutti i colleghi presenti che volessero le slide della mia relazione basta richiedermele via mail cliccando QUI.

Grazie a tutti e buon lavoro.

Cristian

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Il dolore più grande: il cambiamento.

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L’ho scritto spesso è mai mi stancherò di dirlo. Il dolore fisico é per convenzione il sintomo più temuto per chi affronta un percorso oncologico. Può esserlo benissimo, purtroppo, ove non esiste un adeguato servizio di cure palliative e terapia del dolore ma quando questa protezione esiste, credetemi, é proprio il dolore fisico che ci spaventa di meno poiché, salvo rari casi, anzi rarissimi, lo stesso viene ridotto a livelli accettabili o addirittura abolito.

Oggi voglio parlarvi del “dolore più grande”: il cambiamento. Pensate di essere in piena forma fisica e in piena autonomia sino a due o tre mesi prima del cambiamento. L’ho definito così poiché, nella vita di una persona che intraprende il percorso finale, la perdita di autonomia, anche nelle cose più semplici, é un dolore enorme. Scalini che diventano montagne, spostamenti di pochi metri che diventano chilometri, le gambe che non sono più le stesse, la forza che viene a mancare e, peggio del peggio, il dover dipendere da qualcun altro anche se si tratta di un tuo familiare. É un cambiamento abissale che ti porta a lottare, ad inveire, ad arrabbiarti con te stesso e con chi ti sta attorno, a chiederti perché? Molti miei pazienti sono contenti di non avere più dolore, vomito, tosse o comunque di riuscire a gestire tali sintomi quando compaiono. Ma come puoi gestire dentro te stesso un corpo che cambia, un corpo che non riconosci più, che arrivi a rifiutare poiché lo senti nemico. La stanchezza che prevale su tutto. La malattia che decide per te quando e cosa ti é possibile fare. Ecco questo per me é il cambiamento ed é il dolore più grande. É quella cosa che ti porta a dire ” non ce la faccio più “. E non ci sono parole che consolano, farmaci che ti aiutino (si utilizzano i cortisonici che possono anche dare una buona risposta, ma per quanto?). E allora che fare? Che dire? Io non ho una formula magica in tasca posso solo permettermi di suggerire che sono persone che non vanno lasciate sole, che vanno ascoltate, che il loro cambiamento va accolto quasi fosse anche un po’ il nostro cambiamento. Dovremmo essere noi, dovranno essere i familiari, gli amici, le persone vicine a misurare la giusta vicinanza. Una cosa é certa: possono esserci molti silenzi e molte risposte non date, ma la vicinanza e un abbraccio, spesso sono più terapeutici di qualsiasi medicina o terribile parola di circostanza.

Un abbraccio.

Cristian.

Quel dolore inutile.

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Premetto, come ho già fatto molte volte, che il dolore di per se per me, é un termine molto riduttivo. Preferisco parlare di sofferenza, sia essa fisica,esistenziale, psichica o anche, perché no, organizzativa. Già, spesso senza che nemmeno ci facciamo caso ( o ancor peggio senza che i sanitari accolgano tale sintomo) subiamo della sofferenza gratuita. So di essere vagamente polemico, mi piace esserlo poiché ritengo che si debba sempre partire dal problema e non dal quanto siamo bravi. É di oggi la vicenda di una mia paziente che si reca in una grande struttura ospedaliera, certificata oltretutto come “Ospedale senza dolore” (sorrido amaramente). La suddetta deve sottoporsi ad un ciclo di medicazioni complesse a seguito di un grosso intervento demolitivo addominale. Ne esce distrutta. Dal dolore, dal non ascolto, dal non fermarsi al suo gridare “basta”. Ne esce distrutta poiché le viene ricordato più volte che dopo un intervento così “importante” eseguito da altrettanto “importanti luminari” é NORMALE che le medicazioni siano dolorose. Vi ricordo che siamo all’interno di una struttura che si certifica come Ospedale senza dolore. Mi chiedo: é mai possibile che nessuno pensi che basterebbe una terapia pre-medicazione per ridurre questa sofferenza? É mai possibile che un operatore sanitario si senta “stato capace di ascoltare il dolore” solo perché alla fine della manovra la macchina burocratica dell’Ospedale senza dolore chieda a lui di barrare un numero da 0 a 10 (scala valutazione dolore) ? Quanto siamo consapevoli della sofferenza inutile che dispensiamo ogni giorno, ripeto senza arrivare a parlare di patologie oncologiche (per fortuna ora abbastanza protette)?. É tutto il resto che mi spaventa. É la paura che proverà questa signora alla prossima medicazione. É il non ascolto. E quindi non venitemi a parlare di Ospedale senza dolore, che spesso assume a mio avviso uno slogan che serve a qualcuno per riempirsi la bocca e per dire, ancora, quanto siamo bravi. Certo. Chiedetelo a chi oggi ha subito l’Ospedale senza dolore quanto siamo bravi. E come sempre, chi non si sa difendere poiché pensa di essere in una condizione di inferiorità di fronte a camici bianchi di un certo livello, subisce.  Come diceva qualcuno, io non ci sto!

Cristian

 

Cure palliative: non solo dolore.

mani nelle mani
Si pensa sempre al dolore fisico, per una persona alla fine della vita o con diagnosi oncologica, come il sintomo peggiore. Non é così, anzi, é proprio il dolore fisico che riusciamo, salvo casi eccezionali, a controllare sempre. Tengo molto a questo concetto anche per un altro motivo ovvero il luogo comune per cui le “cure palliative” pensino al solo trattamento del dolore, quando invece é la parte, spesso, meno importante. Il sintomo dolore si esprime in vari modi: fisico, esistenziale, comportamentale, … Ecco perché é importante capire che chi si occupa di cure palliative ruota a 360 gradi intorno a tutta la sintomatologia che una persona alle prese con una patologia avanzata può incontrare durante il suo percorso. Oggi i farmaci (oppiacei e non) offrono a chi si occupa di gestire il sintomo dolore innumerevoli possibilità di azione con minimi o quasi assenti effetti collaterali. Ma di questo parleremo un’altra volta. Oggi voglio provare a descrivere uno dei “dolori” più grandi che una persona possa incontrare, un sintomo che é di per se impalpabile ma tremendamente invalidante: la stanchezza.
É di oggi la frase di un mio paziente :”sono così stanco che non riesco nemmeno a stare seduto”. Questo vuol dire che l’unica posizione accettabile non avendo energie alcune da utilizzare é lo stare a letto. Lucidi e consapevoli, intrappolati in un corpo che non prova dolore fisico, ma che non risponde più alle funzioni più semplici, anche a quelle “passive”. Una stanchezza tale da non riuscire a parlare e spesso nemmeno ad ascoltare. Tutto é fatica. Tutto é davanti ai tuoi occhi. Tutto é in salita e non c’é niente dal punto di vista farmacologico di così efficace contro questo tipo di stanchezza, salvo la terapia con cortisone che spesso risulta responsiva solo per brevi periodi. Dobbiamo pensare ad una stanchezza totale, fisica e mentale, ad una sensazione di svuotamento, di fatica che diventa esistenziale poiché inaccettabile. Spesso l’astenia (stanchezza) estrema non é accompagnata da inappetenza. Non é un problema di introito calorico o di liquidi. É un altra cosa, é la malattia che ti sequestra ogni energia, che ti ruba tutto ciò che puoi fare, anche di poco, in una giornata.
Lo ritengo uno dei dolori peggiori anche perché é difficilmente trattabile. Un mio paziente un giorno mi disse “: così é come se fossi già morto prima di morire, respiro, ma non riesco a fare altro”. Capite bene che una situazione del genere diventa inaccettabile ed é spesso motivo di sconforto anche nei familiari che chiedono riposte al sintomo. É difficile comprendere come si possa affrontare persino la difficoltà respiratoria o un dolore atroce fino a farlo scomparire ma non riuscire ad infondere energia a queste persone. Quanti miei pazienti mi dicono che era molto meglio il dolore, ma vissuto in piedi. Ecco perché cercherò anche nei prossimi post di descrivere quali siano i sintomi più difficili da gestire e da affrontare e, ripeto, raramente mi sentirete parlare di dolore fisico.
Le cure palliative servono a “palliare”, a proteggere. Il pallio era il mantello usato nell’antica Grecia come accessorio di protezione. E sotto questo mantello chi si occupa di cure palliative non ha a che fare solo con il dolore ma con tutta un’altra serie si sintomatologie, fisiche e non, spesso sconosciute o non considerate da chi non gestisce pazienti di questo tipo. Anche per questo motivo é riduttivo parlare di “terapia del dolore” salvo la conoscenza che dietro la parola dolore si nasconde un mondo fatto di mille altre problematiche riguardanti il paziente, ma anche la famiglia, poiché quando c’è un malato in casa si é ammalati un po’ tutti e il nostro mantello deve essere sufficientemente grande per proteggere l’intero contesto familiare.

A presto.

Cristian