Si muore come si è vissuto?

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Si muore come si é vissuto?

Sì.
O meglio, per me sì nella maggior parte dei casi ove vi é la possibilità di gestire, più o meno consapevolmente, la propria terminalità. Cerco, in base alla mia esperienza, di riassumere qui alcune caratteristiche comuni ad altrettanti soggetti. É chiaro che ogni storia é un vissuto assolutamente personale ma in questi anni di lavoro ritrovo spesso caratteristiche comuni nell’affrontare la fase finale della vita. Eccone qui alcuni esempi, ce ne sarebbero tantissimi, ma per me questi sono i più significativi:

I guerrieri.
Chi é stato guerriero nella vita lo sarà sino alla fine, non chiederà aiuto se non quando disperato o, pur di non farlo, ricorrerà a gesti estremi. Difficile per i guerrieri accettare l’aiuto sanitario domiciliare. Una volta accettato e accolto sono persone dalle quali ricavi un’energia incredibile e, spesso, profondi insegnamenti. Consapevolezza piena della morte che gestiscono sino all’ultimo.

Gli insicuri.
Soggetti più passivi e abituati a non fare nulla da soli si lasceranno accompagnare e cullare dalla famiglia, vorranno sempre qualcuno vicino e chiederanno aiuto forse ancor prima che gli eventi lo richiedano. Saranno felici dell’intervento a domicilio e accetteranno ogni tipo di terapia pur di stare meglio. Spesso inconsapevoli della fine, nonostante sia evidente, riescono a rimuovere e a vivere in un mondo parallelo tutto loro.

Gli imprenditori di se stessi.
Cosa faresti tu al mio posto? Classica domanda che spesso viene posta da chi é abituato a trattare, a mediare e rientrano spesso in questa categoria di pazienti gli imprenditori o comunque coloro che lavorano autonomamente. Si affidano al sanitario, ma contrattano finché possono sempre tutto. Piena consapevolezza della morte che gestiscono, ma sempre con aiuto.

Le vecchie glorie.
Genitori di ferro, le tempre di una volta, visi segnati dalla fatica del lavoro o dalla paura della guerra. Dignitosi sino alla fine, non faranno mai pesare nulla sulla famiglia che, al contrario, cercheranno di proteggere sino alla fine dal proprio dolore e dalle proprie paure. Consapevoli della morte non ne parleranno mai, la vivranno dentro di loro.

Quelli come noi.
Operatori sanitari, medici, infermieri,…forse la “categoria” più difficile. É sempre una sfida con loro. Non una battaglia. Autogestione al massimo, l’intervento é solo di supporto e non sostituisce o prevarica mai la volontà del paziente che decide tutto per se stesso, anche se ciò diventasse controproducente. Pasticcioni, sfidano spesso la malattia e si arrendono raramente. Testardi e volitivi nelle decisioni, raramente insicuri. Piena consapevolezza della morte spesso, salvo siano stati operatori in cure palliative, rasentano l’accanimento terapeutico, atteggiamento tipico di chi non ha mai, professionalmente parlando, gestito la terminalità ma tutt’altra fase come rianimatori, operatori di pronto soccorso, chirurghi, interventisti,…

I bambini.
Grande insegnamento per noi adulti. Solo chi affronta la morte con loro lo può capire e può comprendere la bellezza di alcuni gesti. Non si può dire che muoiono come hanno vissuto, poiché la vita é stata talmente breve con loro, ma posso certamente affermare che lasciano dentro di noi un grande dolore ma anche una grande insegnamento. La semplicità é la loro arma vincente sia nei confronti della malattia sia nei rapporti con i genitori.
Semplicità che in età adulta andrebbe recuperata e riutilizzata per vivere, forse, un po’ meglio con noi stessi e con gli altri.

A presto
Cristian

 

In ospedale: dall’altra parte per un giorno.

mani nelle mani

Dall’altra parte.

É l’augurio che faccio a qualche operatore sanitario, amministrativo e ausiliario operante in una struttura ospedaliera cosiddetta d’eccellenza.

Io ci sono stato per un giorno dall’altra parte, a tutto tondo, toccando con mano e osservando con gli occhi (spesso sbarrati dallo stupore) ciò che può succedere in un contesto complesso e difficile quale può essere una struttura ospedaliera. Sono stato paziente per un giorno, per la prima volta. Paziente? Che brutta parola!

Dall’altra parte ho intravisto personale sorridente, cortese, umano. Quell’umanità dettata non solo da una professionalità indossata con una divisa, ma diretta, vera e consapevole. Umanità che arriva ancor prima del ruolo poiché é parte di coloro che la possiedono a prescindere.

Ma dall’altra parte ho visto anche un nuovo me stesso. Lo specchio dell’arroganza e della maleducazione nel quale ti rifletti, col quale ti scontri e ti fai male (soprattutto la prima volta) fa di te non più una persona che si trova in un luogo dove ansie e paure ti accompagnano in ogni movimento, in ogni gesto o sinistro suono. No. Fa di te un numero, anzi un oggetto a forma di numero, ancor peggio un pezzo del sistema a forma di numero, con il quale quella divisa bianca o blu che sia é costretta a interagire meccanicamente, a tratti palesemente controvoglia, stanca di una domanda in più o stupita di dover colloquiare non solo con l’organo (il pezzo) malato, ma con una persona. Nell’ingranaggio (il loro) perfettamente oliato proprio per quella richiesta in più -“scusi dove devo andare che non ho capito?”- ; “- posso sapere il suo nome Dottore?”- si inceppa quel meccanismo per il quale il numero che é davanti a loro, quella cosa che gira con un foglio in mano alla ricerca di una meta spesso difficile da raggiungere, non può essere autorizzata a chiedere oltre ad una prestazione codificata dal sistema. Non é codificata la prestazione della gentile risposta o dell’esaustiva e pacata spiegazione. Tutto deve correre più veloce possibile, che importa se davanti a loro il pezzo ha 40 o 90 anni. La velocità é la loro. Ogni nostro errore o richiesta, rallenta la macchina da guerra e innervosisce, a domino, ogni ingranaggio. Eppure guardandoli bene, nonostante camminino come robot lungo corridoi anonimi e per certi aspetti alieni, sono uguali a noi. Due gambe, due braccia, due occhi, ect…. Uguali a noi ma per me diversi. Tu li sei numero, sei una chiamata. Attenzione: debolezze e ansie non previste, anzi pure criticate. -” un giovanotto come lei, per favore”-. Uguali a noi ma capaci di lasciarti senza parole -” scusi ma lei che é venuto a fare da me?”-.

Io dall’altra parte vorrei ognuno di loro, per un giorno. Vorrei che si specchiassero e vedessero solamente un oggetto a forma di numero. Mi piacerebbe pure fossero un po’ in ansia poiché di salute si tratta e, si sa, tutti ci si preoccupa quando qualcosa al nostro interno non va. Ma dall’altra parte, quel giorno, in una sorta di “giochiamo ad invertirci i ruoli” vorrei vedere tutte quelle persone disperate che ho visto cercare invano una porta, una via di uscita, un corridoio e una lettera, una sala d’attesa, una sedia a rotelle, un conforto, un abbraccio.

C’é anche tanta bellezza nei sorrisi di chi é li non solo per mestiere ma anche per passione. Peccato che certe figure hanno la capacità di cancellarti pure le risate. Eh si, cari Signori, in Ospedale si può anche sorridere e confortare. Non c’é eccellenza vera se quell’ingranaggio, ogni tanto, possa godere anche di accoglienza e non solo di sterile perfezione.
(Che perfezione non é).

Cristian

Coraggio e Paura: il mio libro.

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“Coraggio e Paura” , attraverso i suoi dieci racconti, vuole essere la testimonianza , mediante  vicende realmente accadute e tratte dal mio quotidiano lavorativo, di storie di vita e di fine vita dalle varie sfaccettature. Occupandomi di cure palliative domiciliari ho pensato di far emergere il vissuto, le emozioni, le contraddizioni – il coraggio e la paura – di ogni personaggio e del contesto nel quale si trova ad affrontare la morte. Non è un libro tecnico, ne tantomeno infermieristico. Racconto emozioni, abbracci, lacrime e sorrisi in un momento della vita che a molti ancora spaventa eccessivamente. Grazie a Maria e al suo coraggio, alla forza di Michele, al polpettone di mamma Carla e alle altre storie , vorrei far conoscere il vissuto, non sempre drammatico ma spesso buffo e divertente, di chi come loro si è avvicinato alla fine della vita in contesti differenti, con tonalità emozionali non sempre colorate esclusivamente di nero. Non è un libro solamente triste, la festa di Daniele poco prima di andarsene, ne è un esempio.

La prefazione è di Paolo Foschi, redattore al Corriere della Sera, dove si occupa di economia e politica. Ha lavorato all’Unità, al gruppo Espresso e in Mondadori. Ha pubblicato tre romanzi (Delitto alle Olimpiadi, Il Castigo di Attila, Il Killer delle maratone).

La copertina raffigura un Opera del Maestro Galavotti Gian Luca, pittore di crescente fama a livello nazionale e internazionale. Potete visitare il suo sito “chicchiderba” cliccando qui.

Edito dalla Casa Editrice Cinquemarzo il libro è in imminente uscita. Clicca sulle sezioni apposite nel menu del sito per sapere dove trovarlo e come acquistarlo.

Cristian

Oncologia: quel monitor di troppo

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“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”.
Primo appuntamento oncologico. Ansie, paure, sudore, il pensiero di una nuova compagna di nome Morte già a braccetto con te.
“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”.
Così ha inizio il nostro incontro. P. é arrabbiata, delusa, allibita e tanto spaventata. Il suo primo impatto con quel mondo che potrebbe darle qualche speranza non é stato certo dei migliori sotto il profilo umano.
Una piccola protuberanza sul ginocchio destro, una biopsia, una sentenza.
“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”.
Continua a ripetere P., una sorta di maledetto mantra che oscura tutto quello che di buono é potuto scaturire da quella prima visita: una chemioterapia efficace e buoni risultati in termini di prognosi. Niente. Quel monitor, quel muro tra medico e paziente, quel distacco freddo, insipido, volgare e gratuitamente schifoso. P. si é sentita organo, cancro da curare e non persona. Una tastiera e un monitor a riparare le lacune di empatia di un medico evidentemente troppo concentrato a vincere il male, dimenticandosi completamente che quella vittoria la si può e la si deve portare a termine CON il paziente che hai di fronte che a te si affida e, in quel preciso istante, ti vede come unico salvatore.
“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”
Tecnicamente perfetto. Orario dell’appuntamento centrato al minuto. Stampa di una relazione senza un minimo errore ortografico o di battitura. Ma quegli occhi mai alzati, quel capo chino, quella voce così standardizzata da risultare a tratti poco umana, non possono e non potranno mai guarire P.
Poiché P., anche se ha solo 19 anni, la sua scelta l’ha già fatta. Se dovrà essere vittoria sarà da qualche altra parte con qualche altro medico, magari meno preciso, con la stampante che non funziona e un referto scritto a mano, ma con in mano l’arma più potente di qualsiasi farmaco: l’umanità.
P. ha sfogato tutta la sua rabbia e la sua forza dei suoi 19 anni. Dopo di lei, in quel freddo ambulatorio, sarebbero entrati una coppia di anziani. Già vedo quegli occhi e quel capo chino. Ed é solo tristezza.
Cristian