Oncologia: quel monitor di troppo

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“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”.
Primo appuntamento oncologico. Ansie, paure, sudore, il pensiero di una nuova compagna di nome Morte già a braccetto con te.
“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”.
Così ha inizio il nostro incontro. P. é arrabbiata, delusa, allibita e tanto spaventata. Il suo primo impatto con quel mondo che potrebbe darle qualche speranza non é stato certo dei migliori sotto il profilo umano.
Una piccola protuberanza sul ginocchio destro, una biopsia, una sentenza.
“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”.
Continua a ripetere P., una sorta di maledetto mantra che oscura tutto quello che di buono é potuto scaturire da quella prima visita: una chemioterapia efficace e buoni risultati in termini di prognosi. Niente. Quel monitor, quel muro tra medico e paziente, quel distacco freddo, insipido, volgare e gratuitamente schifoso. P. si é sentita organo, cancro da curare e non persona. Una tastiera e un monitor a riparare le lacune di empatia di un medico evidentemente troppo concentrato a vincere il male, dimenticandosi completamente che quella vittoria la si può e la si deve portare a termine CON il paziente che hai di fronte che a te si affida e, in quel preciso istante, ti vede come unico salvatore.
“Non mi ha nemmeno guardata in faccia”
Tecnicamente perfetto. Orario dell’appuntamento centrato al minuto. Stampa di una relazione senza un minimo errore ortografico o di battitura. Ma quegli occhi mai alzati, quel capo chino, quella voce così standardizzata da risultare a tratti poco umana, non possono e non potranno mai guarire P.
Poiché P., anche se ha solo 19 anni, la sua scelta l’ha già fatta. Se dovrà essere vittoria sarà da qualche altra parte con qualche altro medico, magari meno preciso, con la stampante che non funziona e un referto scritto a mano, ma con in mano l’arma più potente di qualsiasi farmaco: l’umanità.
P. ha sfogato tutta la sua rabbia e la sua forza dei suoi 19 anni. Dopo di lei, in quel freddo ambulatorio, sarebbero entrati una coppia di anziani. Già vedo quegli occhi e quel capo chino. Ed é solo tristezza.
Cristian

La ricerca della mamma. Dal primo vagito all’ultimo respiro: la ricerca di quel luogo sicuro e pieno d’amore.

Mamma, Madre: dalla nascita alla morte la ricerca ancora una volta di quel luogo sicuro e pieno d’amore. Il primo vagito. Quel verso pieno d’amore e di disperazione, atteso con ansia da ogni genitore in sala parto. Piange, dunque respira, dunque vive. Spesso e volentieri penso e ho pensato a quel primo grido d’aiuto, al vero significato oltre a quello puramente clinico (il passaggio da un ambiente protetto ad uno completamente nuovo e il primo contatto con l’aria esterna). Ci ho pensato poiché, forse pontificando un po’, quel primo richiamo non é nient’altro che la ricerca, di nuovo, della madre. Uso il termine madre inteso come luogo protetto, un luogo senza dolore, sicuro, caldo e pieno di attenzioni. L’utero materno, del quale per ovvi motivi non possiamo averne ricordo mnemonico, é l’habitat ideale per ogni individuo.

So che vi state chiedendo il perché è soprattutto dove voglio arrivare. La madre, la mamma, nel 90% dei casi o forse più viene sempre invocata, chiamata, cercata poco prima di morire. Chi con lucidità chi con meno vigilanza é Colei che sempre si cerca. “Mamma, aiutami, dove sei?; l’ho vista stanotte… Ect ect”
La fredda analisi ci porrebbe di fronte ad un delirio o comunque ad uno stato confusionale che riporta il soggetto alle cose care e ferme della propria esistenza.
A me piace pensare che quel richiamo, quel vedere di nuovo una mamma che non c’è più, quel grido di aiuto sia molto semplicemente la ricerca, di nuovo, di quel sicuro habitat lontano da ogni tipo di sofferenza, di dolore fisico e non, di paura; che sia la voglia di sentire quel tepore che solo la mamma ci poteva offrire, quella sicurezza che solo lei ci poteva infondere. Ripeto, la mamma é quasi sempre presente nella persona morente che l’ha già persa. È comunque li. Come era lì ad ascoltare ed accogliere quel primo vagito ora accoglie un grido di aiuto o semplicemente un richiamo alle origini. E dunque, ancora, grazie mamma!

Cristian

Si può dire morte

si puo dire morte

Lo sappiamo tutti. Anche Papa Francesco recentemente ha detto del web:

Internet è un dono di Dio. Può offrire maggiore possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Ripeto: purché sia autentica.

E’ con questo spirito e con la passione sia per il web sia per la mia attività che vi segnalo un bellissimo e coinvolgente spazio, ideato da Marina Sozzi, che solo il titolo me lo ha fatto amare sin da subito: si può dire morte. Potete raggiungere il sito cliccando QUI , sull’immagine o nei link da me consigliati.

E’ uno spazio e un luogo fatto di passione quello di Marina, di voglia di comunicare, di parlare, di nominare la morte per ciò che è, senza tabù e senza paura alcuna. Attenzione, la chiave di svolta è proprio il non avere paura di parlarne, non certo di convincere il visitatore a non avere timore a tutti i costi della morte.

Articoli interessanti, argomentazioni varie, una grafica leggera e accattivante e soprattutto una capacità comunicativa non comune. Sarò un tuo assiduo visitatore cara Marina anche perché, nonostante la morte la incontro ogni giorno, ho sempre tanto da imparare e tu mi sarai di grande aiuto. Grazie!

Cristian

Mio commento ad articolo di Antonella Soldo

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Pubblico volentieri anche in questo spazio un mio commento postato su Facebook (e qui ampliato) a questo articolo, pubblicato nel 2012 (potete leggerlo cliccando QUI) dal titolo ” La morte. Sempre più una decisione medica. I dati delle ultime ricerche ” firmato da Antonella Soldo.
Lascio a voi ogni tipo di riflessione, senza alcuna polemica e soprattutto nella massima liberà di espressione di ognuno, nel rispetto delle competenze e delle conoscenze di ciascuno.

Come si può associare una parola come “eutanasia” passiva ad una sedazione terminale. (“Prolungata” termine assolutamente non corretto). Lo scopo della spt (sedazione palliativa terminale) è quello di ridurre fino ad abolire lo stato di coscienza di un paziente GIÀ alla fine della vita ove si presenti un sintomo refrattario ad ogni altro tipo di trattamento. Ciò per consentire una morte dignitosa, non certo per stabilire o ridurre i tempi di vita. Qui più che di numeri e di fredde statistiche servirebbe tanta ma tanta informazione soprattutto agli operatori sanitari che non si occupano di cure palliative. Come ho già detto medici e infermieri palliativisti non si nasce, così come non si nasce cardiologi o rianimatori.
Infatti quello che purtroppo si vede spesso negli ospedali è la decisione medica di una morte NON dignitosa. Questo è il dramma vero. Ripeto, salvo acuzie, si deve morire a casa propria con assistenza adeguata palliativa oppure, ove non ci sia nemmeno un care-giver in famiglia, in strutture adatte alla gestione della terminalità come un hospice. Perché la terminalità va gestita da professionisti di tale fase della vita, sia medici che infermieri.
In realtà quello che io e Antonella Soldo diciamo fondamentalmente sono la stessa cosa. Quando in Italia un po’ di trasparenza? Quando in Italia una legge sul testamento biologico? Quando in Italia una vera cultura delle cure palliative attraverso una corretta e non “deviata” informazione fatta da chi, probabilmente, le cure palliative non le ha mai toccate con mano così come non ha mai toccato la mano ad una persona morente?

Il mio motto per ora è : parliamone, parliamone e parliamone ancora!!!

Cristian